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Tutto su Pedro Almodóvar | Parte II

  • Immagine del redattore: Davide
    Davide
  • 27 ago
  • Tempo di lettura: 7 min

Aggiornamento: 28 ago

Continua la mia lettura/studio del testo di Frédéric Strauss dal titolo Pedro Almodóvar. Tutto su di me. La seconda parte del manuale ha riguardato la filmografia del registra spagnolo durante gli anni '90, decennio di crescita artistica che culmina nel suo più grande successo a livello internazionale.

Per comprendere meglio come è strutturato questo post e in generale questo mio progetto vi rimando alla prima parte seguendo questo link:




Tacchi a spillo (1991)


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Victoria Abril torna ad essere protagonista in un lungometraggio in cui il rapporto madre/figlia è centrale. Il suo personaggio si svela sotto l'ombra di un'ingombrante figura materna, che incarna ed elogia il tema del divismo grazie alla recitazione di Marisa Paredes, vera e propria icona del film, perfetta nel ruolo di madre-star dello spettacolo e che apre ad un'altra dicotomia presente nell'opera e funzionale alla prima: quella tra vita privata/vita artistica. Il genere potrebbe essere quello del thriller, contornato sempre da guizzi esilaranti e non convenzionali tipici del regista, anche se molto più incline al melodramma che al giallo.

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Gli anni '90 si inaugurano per Almodóvar anticipando ciò che sarà essenzialmente in evoluzione in questo decennio: il connubio tra moda e spettacolo. E Marisa, con il suo ruolo da icona della musica, diviene perfetta per sfoggiare un'attenzione inedita agli abiti delle grandi griffe del periodo e alle intense performance musicali. Il tema della genitorialità, del trasformismo e della finzione che il mondo dello spettacolo ha in sé, sono inevitabilmente legati alla macro-tematica della pellicola: quella dell'inesorabile scorrere del tempo, delle maschere e dei travestimenti che mettiamo in scena per seppellire il passato il quale inevitabilmente torna a chiudere i suoi conti.

Non è tra i miei film preferiti di Pedro, il noir iniziale si perde con successivi e troppo repentini cambi di registro. Resta comunque un'opera a suo modo iconica per le sue protagoniste, Marisa in primis, e soprattutto per la memorabile scena finale.

Voto: 7


Kika - Un corpo in prestito (1993)


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Senza ombra di dubbio il film più freak ma anche il più satirico di Pedro.

Il genere della satira viene utilizzato per avanzare una profonda critica sociale al mondo televisivo, dei reality show e del voyeurismo senza limiti. Direzione antropologica presa inizialmente proprio per colpa dello strumento televisivo e al diffondersi delle emittenti privati, e più avanti nel tempo confermata con l'approdo dei social network: ancora una volta Almodóvar come precursore dei tempi. Adorabile è il personaggio di Kika, che dà il titolo al film e attorno alla quale si sviluppano una serie di storylines parallele che la rendono di fatto non più protagonista di altri. Con la sua innata simpatia e comicità, infagottata di accessori kitschissimi ed un "trucco e parrucco" che urlano <<ANNI '90>> da ogni singolo elemento, ci fa riflettere sul tema dell'autenticità, del vero che si nasconde all'interno dell'artificio. Quest'ultimo elemento rappresentato invece dal personaggio di Victoria Abril, una sorta di donna-futuro, robotica e aliena, con l'ossessione per i casi di cronaca, osservare e mostrare ogni singolo istante della realtà, anche il più estremo ed intimo, come la morte, in una vera e propria prostituzione del privato.

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A ricordare i primissimi lavori di Almodóvar, oltre che questa spiccata propensione al grottesco, vi è anche la coralità della sceneggiatura, che, ahimè, in un intreccio che punta al thriller senza riuscire nemmeno ad avvicinarcisi, diventa difficile da rendere verosimile e rischia di stranire lo spettatore. È un po' come se nella pellicola si sia voluto inserire troppe tematiche forti ed attuali, non possiamo non pensare al voyeurismo anche nella sua declinazione pornografica, al safe sex e alla chirurgia estetica, senza però compattare il tutto. La volontà di esagerare, tipica di molti artisti nei primissimi '90, ha la meglio sulla riuscita del progetto rendendo il tutto un bel pacchetto ma con un contenuto troppo variegato e, per i più moralisti, anche di cattivo gusto.

Bella, ma molto molto bella, tutta l'estetica del film: abbiamo già menzionato il make up e l'hair style, ma in generale è tutto il comparto visivo, in particolar modo quello scenografico, ad essere impattante.

Voto: 5


Il fiore del mio segreto (1995)


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È un film che parla di abbandono e del dolore che ne deriva, con una chiave di lettura inaspettatamente semplice, sobria ed atipica per il registro almodóvariano.

Il regista si conferma come un maestro nell'indagare la disperazione femminile, questa volta non isterica ma drammaticamente nostalgica e malinconica. Vi è un cambio di prospettiva rispetto al precedente lavoro non solo per il ritmo più lento e meditativo, ma anche soprattutto in termini di sceneggiatura, con la scelta di eliminare elementi di coralità e concentrare il tutto attorno ad un unico e solo personaggio, quello della scrittrice di romanzi rosa Leo Marcìas.

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Il risultato è sicuramente di un film femminile e femminista, in cui l'amore per un uomo ha i tratti oscuri della dipendenza, e solo il potere salvifico della sorellanza, del "ritorno a casa", al nucleo famigliare (da sempre per Pedro di matrice matriarcale) può guarire.

Tra le diverse tematiche secondarie non mancano quelle sociali, con le immagini delle città in sciopero, e neorealiste della contrapposizione tra moderna vita di città e il tradizionale scorrere lento del tempo nelle tradizioni di paese (c'è dell'autobiografico qui). Tuttavia questi aspetti accessori, che avrebbero potuto dare più mordente al lungometraggio, si perdono e restano solo accennati.

In una moltitudine di citazioni letterarie ed artistiche in senso lato, la protagonista si salva dal suo dolore anche grazie alla fiction che la scrittura sa creare.

Notevoli e raffinate le musiche e la fotografia.

Voto: 6


Carne trémula (1997)


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Questo film rappresenta un punto di svolta nella filmografia di Almodóvar, sotto diversi aspetti che analizzeremo. La meravigliosa scena d'apertura, con una giovanissima Penélope Cruz a sottolineare la novità anche nella ricerca di nuove stelle emergenti nel cast, è una cartolina mozzafiato sulla Madrid degli anni '70, fredda e silenziosa a causa dello stato d'emergenza imposto dal Governo. Ma presto la città cambia aspetto; con un repentino salto temporale, siamo negli anni '90 e gli eccessi, la vivacità e i colori della capitale spagnola tingono di novità la pellicola.

L'opera è un thriller riuscitissimo che si snoda perfettamente in un ottimo equilibrio di storie e personaggi caratterizzati benissimo, con una sceneggiatura piena di elementi e tematiche in grado di estendersi in un arco temporale notevole (un ventennio) senza mai perdere hype.

In questo crime di Almodóvar come sempre tutto ciò che è tipico del genere viene messo in discussione e ribaltato. Quello che dovrebbe essere l'antagonista è l'unico personaggio che non provoca dolore fisico ad altri ma si limita a "desiderare". Il desiderio è quindi ancora una volta al centro della lente d'ingrandimento del regista, nelle sue venature più ossessive (si parla di vero e proprio stalking, tematica oggi così attuale) ma anche primordiali, istintive ed infantili.

Le due Madrid, quella franchista delle prime scene e quella trafficata e vivace del finale, sono funzionali alla critica che Pedro muove verso il regime del terrore e della paura. Le figure degli agenti di polizia, ambasciatori del controllo e dell'ordine durante la dittatura, sono personaggi inetti che creano caos e violenza, anziché reprimerla.

"Non si è padroni della gioventù, né delle donne che si amano", con questa quote del personaggio di Sancho si può riassumere l'essenza della pellicola: da un lato abbiamo un riferimento esplicito allo scorrere del tempo, agli anni che inesorabilmente passano e mutano tutto, dall'altro al desiderio come possesso in amore.

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Il dolore che i protagonisti si causano a vicenda sembra in prima lettura dovuto a semplici equivoci, ma più profondamente noteremo come è la "paura che qualcosa di brutto accada" a spingerli a compiere azioni negative.

Per la primissima volta forse nei film di Pedro vi è una caratterizzazione profonda anche dei personaggi maschili, mentre quelli femminili restano da un lato ancorati alla tipica disperazione almodóvariana, dall'altro rappresentano l'iniziazione alla vita, in senso stretto e non (vedi Clara e Isabel).

La voglia di novità traspare anche in un rinnovato cast. Accanto alla Cruz infatti i ruoli principali sono qui affidati a Liberto Rabal, Francesca Neri, Javier Bardem, Ángela Molina e José Sancho. Con "Carne Trémula" Pedro decide di rinnovare la rosa di attori e attrici con cui lavorare non facendo più affidamento alle sue canoniche muse ed introducendo volti inediti, alcuni dei quali diventeranno a loro volta nuovi feticci per la seconda vita della filmografia del regista.

Voto: 9


Tutto su mia madre (1999)


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Il dramma per eccellenza di Pedro Almodóvar, un film che parla di morte e rinascita, di maternità e

nuove forme di genitorialità, di finzione e realtà.

Attraverso un tunnel che sa di transizione il regista ci porta da Madrid a Barcellona, città eclettica e multietnica, dove la realtà della prostituzione transessuale ha solide radici. La transessualità è infatti importantissima per comprendere le dinamiche di mutazione e trasformismo di cui il film ci narra, con un continuo rimando anche al mondo della medicina ed in particolar modo a quello dei trapianti nei quali dalla morte si può creare speranza e nuova vita.

L'essenza della rinascita è raccontata nell'iconico monologo ("il privilegio esclusivo dei grandi attori" come lo definisce lo stesso Pedro) di Agrado, una prostituta transessuale interpretata da Antonia San Juan, che con un perfetto equilibrio tra drammaticità ed ironia ci racconta cos'è l'autenticità. Il mondo queer è dunque mostrato nella sua più incantevole esuberanza e verità ma allo stesso tempo messo in ombra dalla piaga dell'HIV e della prostituzione come unico rimedio per il raggiungimento della propria completezza.

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Ritorna in pieno splendore Marisa Paredes, ancora una volta nel ruolo della diva irraggiungibile che, con l'artificio del teatro, diviene il mezzo con cui il regista rende omaggio alle grandi attrici del passato Bette Davis, Gena Rowlands e Romy Schneider. La sorellanza che queste grandi attrici evocano si realizza in pellicola nel legame tra le protagoniste, le quali fondono quattro diverse realtà individuali in un unico e preciso messaggio: si può essere madri in mille modi diversi e la maternità resta un concetto sacro che non si perde nemmeno con le mutazioni del corpo e dello spirito. Citando Un tram che si chiama Desiderio, messo in scena nel film dal personaggio di Marisa in una pièce teatrale, "ho sempre avuto fiducia nella bontà degli sconosciuti" è la frase che meglio racconta questo meraviglioso capolavoro di Pedro Almodóvar in cui è un legame femminista, anzi transfemminista, tra sconosciute che unisce e libera.

"Tutto su mia madre" segna definitivamente la consacrazione internazionale di Almodóvar, il film che più in assoluto lo porterà all'apice del successo e del riconoscimento soprattutto grazie alla vittoria del prestigioso premio come "Miglior film straniero" ai Golden Globe e ai più comunemente ambìti Premi Oscar.

Voto: 10


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