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THE BRUTALIST - La brutalità dell'utopia

Immagine del redattore: StefaniaStefania

A pochi giorni dalla sua uscita nelle sale cinematografiche, decido di parlarvene, in quanto ritengo meriti la massima attenzione e ammirazione! Sto parlando proprio di “The Brutalist”: una pellicola dalla durata di 216 minuti intrinsechi di riflessione, intensità, drammaticità, oppressione che catapultano lo spettatore nella speranza ormai utopica del protagonista di vivere il “sogno americano”. Le tre ore e 36 minuti quasi non si avvertono, in quanto pregne di valori e principi che vengono messi in luce dalla magistrale interpretazione di Adrien Brody di Laszlo Toth. Agli occhi della critica cinematografica e non solo, l'opera di Brady Corbet viene definita intensa e provocatoria capace di trasportarci in un viaggio oscuro e profondo attraverso la condizione umana, il trauma e le contraddizioni che si rovesciano sulle nostre teste come il fotogramma iniziale della Statua della Libertà capovolta.

Essa simboleggia le finte virtù del sogno utopico, del retaggio culturale nei confronti degli immigrati, dell'apparente accettazione e tolleranza nei loro confronti e della sottomissione che subiranno una volta sbarcati. Potrebbe in aggiunta indicare il disorientamento interore del protagonista, la lotta introspettiva del tormento vissuto, lasciatosi ormai alle spalle e la paura per la sopravvivenza della moglie Erzsebet (Felicity Jones), rimasta in Ungheria con la nipote Zsofia (Raffey Cassidy).

Laszlo, ormai lontano dall'Olocausto, tenta di ricostruire la propria esistenza in un'America idealizzata. “The Brutalist” esplora temi complessi come la violenza, l'alienazione, la ricerca di identità e il potere distruttivo del capitalismo. Infatti Toth si sposta negli Stati Uniti per ricostruirsi una vita, ma s'imbatterà in un sistema che lo sfrutta e allo stesso tempo lo disumanizza, costringendolo ad avvertire con acume il senso di una sua alienazione e un certo logorio interiore che lo mangerà giorno dopo giorno. Il titolo infatti ne è la dimostrazione: “The Brutalist” non solo fa riferimento al movimento architettonico brutalista della Bauhaus, ma diventa una metafora per indicare la crudezza e l'intensità delle esperienze che il protagonista affronta. La "brutalità" si riflette nel contrasto tra la ricerca di bellezza e autenticità attraverso l'arte, e la realtà violenta e disumana che lo circonda. L'architettura brutalista, pur essendo una forma d'arte, è anch'essa una reazione al mondo moderno e alla sua freddezza, che spalleggia la lotta di Toth contro la ferocia del suo ambiente e del suo passato. In questo modo, il film crea un legame profondo tra la forma architettonica e la condizione psicologica e sociale del protagonista, suggerendo che entrambi, in modi diversi, sono manifestazioni di un'umanità che cerca di resistere alla disumanizzazione. Il suo cammino è colmo di dolore, difficoltà di ambientarsi in un mondo nuovo, connotato dalla barbaria della violenza sessuale che subisce da Harrison Lee Van Buren.

Questo abuso diventa una manifestazione del potere oppressivo del sistema e delle forze sociali, che non solo schiacciano il protagonista rendendolo vulnerabile e isolato, ma lo disumanizzano ulteriormente, soprattutto considerando il suo passato di architetto ebreo sopravvissuto all'Olocausto. Qui entra in gioco il ruolo fondamentale dell'arte: essa, al contrario, rappresenta per Laszlo una via per recuperare sé stesso. È attraverso la creatività e l'arte che riuscirà ad intravedere la speranza perduta! Tuttavia, l’arte stessa è compromessa dal sistema che la trasforma in merce, limitandone il suo valore più profondo. Il conflitto di Toth nasce proprio da questa contrapposizione: la violenza lo priva delle sue capacità relazionali e lo segna emotivamente, mentre l’arte tenta di offrirgli un mezzo per riconquistare il controllo su sé stesso e sul mondo. Tuttavia, in un contesto che svilisce e sfrutta l’espressione artistica, la sua lotta per mantenere la propria umanità si fa ancora più ardua. Così, Brady Corbet esplora come l’arte possa essere sia una forma di resistenza che un campo di battaglia contro le forze che cercano di distruggere l'individuo.

Questo concetto capitalista viene impersonificato da Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce) che affida a Laszlo Toth la costruzione di un edificio monumentale dedicato alla madre defunta alla quale era molto legato. In realtà, questo mastodontico progetto simboleggia la sua megalomania, ma anche il potere di sottomettere tutti, compreso l'architetto ebreo che verrà violentato e marchiato come nullità ai suoi occhi. La loro collaborazione inizialmente nasce in modo quasi idilliaco, tanto che Harrison riesce a far ricongiungere Laszlo con la nipote Zsofia e la moglie Erzsebet in America e a darle un nuovo lavoro.

Ma una volta che la moglie avente osteoporosi dovuta alla malnutrizione nel campo nazista, rientra nella vita di Toth, ecco che il controllo di Harrison prende il sopravvento in lui. Durante un viaggio a Carrara da parte dei due per scegliere il marmo migliore per rifinire l'altare posto nell'edificio, avviene la brutalità. Toth una volta rientrato in America, diventa irascibile, anche nei confronti della moglie. Una notte Ezsebet in preda a dolori atroci alle ossa supplica Laszlo di aiutarlo e lui, impanicato, le somministra droga endovena per farla stabilizzare (droga che usa dallo sbarco in America come antidoto all'alienazione). Successivamente fanno l'amore e lui le svela l'atrocità che ha subito e il perché del suo malessere psicofisico.

Dopo la confessione, Erzsebet decide di recarsi da Harrison per smascherarlo e dire a tutti cosa ha fatto a suo marito. In seguito alla sua affermazione, viene strattonata e allontanata violentemente dal figlio di van Buren. A quel punto il magnate scompare. Una delle possibilità suggerite dal regista è che Harrison possa essersi suicidato. Questo è implicato da una scena in cui un cane molecolare, utilizzato per cercare tracce all'interno della struttura che Laszlo aveva costruito, trova qualcosa. L'edificio, che rappresenta il potere, potrebbe identificarsi allegoricamente nel luogo della sua rovina. La sua morte, quindi, vien vista dallo spettatore come un atto di disperazione dopo la rivelazione pubblica del suo crimine. Un'altra possibilità è che Harrison possa essere scomparso perché consapevole di essere irrimediabilmente rovinato. In entrambi i casi, la sua fine è simbolica e rappresenta la distruzione di un uomo che ha abusato del suo potere. L'idea del regista di lasciare questo finale aperto riguardo l'antagonista, si rivela una sua volontà di far vacillare il destino del personaggio in sospeso, invitando il fruitore a riflettere sul suo crollo.

Dopo quel brutale episodio, Toth raggiunge la moglie e la nipote in Israele. Questo ricongiungimento con la famiglia, in realtà sembra essere un ritorno alle origini, un ritorno nella sua Madre Terra. Ritrovare la pace tanto agognata in America e incontrare nuovamente la nipote trasferitasi anni prima con il marito in Israele, segna per lui un ricongiungimento con la speranza, persa nel sogno americano mai vissuto.

Nell'ultimo frame del film, Laszlo viene celebrato a Venezia per la Biennale e il suo lavoro finalmente riconosciuto, diventa la rivincita di quella vita colma di sofferenza, resilienza e “brutalità”. Però il contrasto tra il riconoscimento pubblico del suo operato e le sue cicatrici interiori, evidenziano l’ambiguità del trionfo di Toth ormai anziano e in sedia rotelle. La sua celebrazione è il culmine di un percorso travagliato, che sembra quasi nello sguardo non dargli soddisfazione e non risanarlo. La sua vita continua a essere segnata dalla lotta tra la sua ricerca di redenzione attraverso la creatività e le ferite del passato che lo accompagnano.

Il finale di The Brutalist lascia il pubblico con una sensazione di dualismo e conflitto (proprio come quello del protagonista) tra la celebrazione e il dolore, tra la bellezza dell'arte e le cicatrici della realtà, tra l'illusione dell'incanto e la brutalità della società ...

Questa pellicola a mio parere merita tutti i riconoscimenti che sta ottenendo e le dieci candidature agli Oscar, tra cui l'interpretazione magistrale e superlativa di Adrien Brody.

Vi allego un estratto dell'intervista che fece il 2 Febbraio 2025 a “Che tempo che fa” sul significato che associa nell'essere attori, immedesimansosi nel personaggio come fece in “The pianist”. Sicuramente è questo il segreto che lo rende uno dei più grandi! (Vincerà il secondo Oscar? … Io lo spero vivamente!).







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