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La speranza del ricordo | La famosa madeleine

Immagine del redattore: StefaniaStefania


Quando tutto ci sembra perduto, che il passato non potrà rivelarsi ai nostri occhi così facilmente e la normalità essere un concetto ormai lontano da noi, ecco che anche il tempo vissuto inizia a perdersi tra i ricordi dell’anima. Capita in questo periodo, che sembra non terminare, di soffermarsi più frequentemente su quei concetti profondi che prima si osservavano con un’attenzione differente, e la memoria di un tempo passato inizia a ripresentarsi come su di una pellicola nella nostra mente. Tutto riaffiora e si ripresenta davanti ai nostri occhi prima opacizzati da quel velo impercettibile dell’insensibilità; il tempo perduto acquista il giusto valore! Si iniziano a rivivere sensazioni associabili ad un momento passato, quel profumo ormai dimenticato e le emozioni si palesano come la famosa madeleine di Proust. Esse si manifestano limpide come all’interno del romanzo “Alla ricerca del tempo perduto – Dalla parte di Swann”, dove ogni minima peculiarità assume la giusta valenza, e il tempo passato non è più passato. Marcel Proust a tal proposito rifacendosi alle teorie sul tempo, crea un concetto interessante, quale una relazione tra il passato, il presente e il futuro. Proust fu colpito dalla teoria temporale agostiniana, la quale affermava che il tempo fosse suddivisibile in tre parti: presente del passato (la memoria), presente del presente (la visione) e il presente del futuro (l’attesa). Nella prima parte del romanzo, infatti, l’autore si sofferma proprio sul primo: la memoria di un tempo passato che si svela nuovamente nel presente, e attraverso quei piccoli frammenti di ricordo, riesce inspiegabilmente a far rivivere sensazioni ed emozioni archiviate nella mente ormai da anni. Tutto riappare limpido agli occhi di Swann che rivive attraverso i sensi la casa d’infanzia a Combray, la mamma e quella“madeleine”.


“La mia unica consolazione, quando salivo a coricarmi, era che la mamma sarebbe venuta a darmi un bacio una volta che io fossi a letto. Ma quella buonanotte durava così poco, lei ridiscendeva così presto, che il momento in cui la sentivo salire, e poi nel corridoio a doppia porta trascorreva il lieve fruscìo della sua veste da giardino in mussola azzurra dalla quale pendevano dei cordoncini di paglia intrecciata, era per me un momento doloroso. Esso era il preannuncio di quello che sarebbe seguito e nel quale mi avrebbe lasciato, sarebbe ridiscesa. E così, quella buonanotte che amavo tanto, mi spingevo sino ad augurarmi che arrivasse il più tardi possibile, perché si prolungasse il tempo di tregua durante il quale la mamma non era ancora venuta.”


E seguendo lo stesso andamento di Proust, James Hillman inizia a volersi concentrare su quella ricerca e quella teoria platonica incentrata proprio sul mito di Er e del “daimon” ne "Il codice dell'anima". Il perché di tutto, dai ricordi alle sensazioni, risiedono nella seguente mitologia che identifica la nostra anima e la nostra esistenza. Er è un valoroso soldato della Panfilia, morto in battaglia. Nell’istante in cui sta per essere arso al rogo, si desta dall’apparente morte e dal sonno eterno, e inizia a raccontare ciò che ha visto nell’aldilà. I giudici delle anime sedevano su quattro aperture: due per chi andava e veniva dal cielo, mentre le altre due dalle profondità della terra. A questo punto le anime venivano esaminate e decretati i “giusti”, e sulle spalle dei malvagi la sentenza, ordinando ai primi di salire al cielo, mentre agli altri di andare sotto terra. Ad Er, inoltre, era stato affidato il seguente compito dai giudici: ascoltare e guardare ciò che avveniva in quel luogo e poi riferirlo all’intera umanità. Chi in vita aveva commesso ingiustizie, veniva punito con una pena dieci volte superiore al male commesso, invece le buone azioni venivano ripagate e premiate nella stessa identica misura.

"A golden thread", John Strudwick,1885

Le anime rimaste per una settimana erano costrette a camminare per quattro giorni sino a giungere in vista di un arcobaleno dove a un capo pendeva un fuso, simbolo del “destino”, posato sulle ginocchia della dea Anake (dea della necessità), seduta vicino a Cloto (il presente), Lachesi (il passato) e Atropo (il futuro). Er raccontò come le anime venissero indirizzate da Lachesi attraverso il “daimon”, verso il loro destino seguendo le loro attitudini; questi era definibile come il “genio tutelare” che avrebbe sorvegliato ogni anima verso la vita prescelta. Eccolo che entra in scena questa nuova figura: il “daimon” lo chiamavano i greci, “genius” i latini, angelo custode i cristiani; per chi ci crede, questi ci guida nel cammino terreno. Seguendo codesta teoria, tutto sembra essere stato scritto come su di un copione, e chissà se anche la fine di questa situazione è stata prevista, e già scritta, sulle pagine della vita. Di certo la speranza è l’unica arma che può permetterci di impugnare, ancora una volta, una penna, una matita, un foglio per sprigionare le emozioni insite in noi e liberare quei ricordi che possono riaccendere la nostra anima; quella madeleine di Proust rimane l’unica soluzione, e il ricordo si rivela essere quell’alternativa alla quale aggrapparsi.


“Al mio ritorno a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, cambiai idea. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti che chiamano Petites Madeleinese che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una “cappasanta”. E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato che s’ammorbidisse un pezzetto di madeleine. Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua casa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente mortale. Da dove era potuta giungermi una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura. Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla? Bevo una seconda sorsata nella quale non trovo di più che nella prima, una terza che mi dà un po’ meno della seconda.”


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