NO WAR, PLEASE!
- Stefania
- 28 feb 2022
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 28 feb

- Dopo aver raggiunto la finale nel tabellone dell'ATP 500 di Dubai, Andrey Rublev ha firmato la telecamera di bordocampo con un messaggio chiaro e conciso: "No war, please" (No alla guerra, per favore). -
Tra i tanti “perché” posti in questi giorni, in questo preciso istante traspare la necessità di trascrivere a parole il flusso di coscienza interiore che risale dall'abisso delle paure. L'umanità sembra essere un concetto quasi utopico, ormai lontano, a tratti stridulo e dissonante per chi non sa ascoltare. Come rispondere ad un bambino che smette di giocare, si avvicina al televisore, guarda un coetaneo piangere e salutare il padre – soldato, si volta verso la madre con gli occhi lucidi e le pone l’unico quesito al quale è difficile, se non impossibile in tal caso rispondere: “Perché?”. In quel momento, nel quale, gli ingranaggi della mente si susseguono alla velocità della luce cercando discorsi filosofici e parole più consone per tentar di “addolcire" quella brutalità oggettiva, si può notare negli occhi innocenti di quel bambino quella vana speranza che sa già vacuità. L'umanità sembra essere scomparsa, la pace utopica essere solo mera resilienza. A distanza di due anni dal devastante crollo psico - fisico, ci si ritrova catapultati in una realtà distopica, infestata nuovamente dalla paura e dal terrore di una ricaduta; un fantasma del passato che non vuole dileguarsi ...

Molte le similitudini con le guerre passate, molti gli orrori che gli occhi dei nonni sembrano essere destinati a rivedere e i giovani a vivere non solo attraverso le pagine ingiallite dei libri di scuola. Tutto questo annienta ancor più quella speranza velata e così tanto agognata e ricercata. Salvador Dalì raffigurò quella paura ne “Le visage de la guerre” (1940) e Marina Abramovic nella performance “Balkan Baroque” (1997).
“Il principio che anima questo Balkan Baroque: il pulire lo specchio, vale a dire il processo di autoanalisi che sempre dobbiamo fare, questa volta riguarda la coscienza della storia. Di questa storia tragica dobbiamo iniziare a pulirne le ossa! A pulire il nostro passato! Una società che potremmo definire della rabbia.” - M. Abramovic.

Riflettersi in quello specchio, pulirne le ossa e allontanare il passato furono gesti estremamente forti e, al contempo, di estrema fragilità. Donne e uomini costretti ad imbracciare fucili, civili inglobati in questa guerra che non appartiene a nessuno, lottare contro un fratello costretto ad indossare controvoglia i panni del nemico ed anime che si perdono in questo clima dell’orrore. Aprire e vedere sul proprio cellulare articoli inerenti alla guerra, ti devasta dentro. Ecco che inizi a pensare : “Ma se stessi io in quella situazione?” e poi la seconda domanda arriva spontanea : “Ma se quella situazione stesse solo ritardando e mi coinvolgerà in prima persona domani?”. Un brivido mi sale lungo la schiena e ripenso a quel volto innocente con gli occhi lucidi, a quella mamma che partorisce una bimba in un rifugio sotto le bombe, a quel distacco straziante tra la figlia e il padre, a quei figli strappati dai loro genitori per essere affidati a sconosciuti che se ne prenderanno cura, a quei due sposini russi che poco dopo il loro matrimonio imbracciano i fucili e dicono: “Se moriremo, lo faremo insieme”. Sì, Yaryna e Sviatoslav il mio pensiero va a voi, giovani quanto me e così piccoli per essere condotti verso il braccio della morte, oppure a quel padre italiano costretto ad abbandonare la moglie in Ucraina e a salvare i suoi due bambini tramutando questa disumanità in un “gioco”, raccontando loro che ogni posto di blocco e rifornimento di cibo serve a segnalare che la vittoria si sta avvicinando, quasi come fosse lo stratagemma adottato da Guido Orefice (Roberto Benigni) ne “La vita è bella”.
Penso anche a quella moglie, madre e soprattutto donna rimasta nel suo paese per non abbandonarlo nel momento del bisogno, seguendo l’esempio del presidente ucraino Zelensky, a quelle persone che già non ce l’hanno fatta, ma non per questo hanno perso, ai loro cari già partiti che piangono durante il tragitto e, a questo punto, mi rivolgo alla Disperazione ponendole la stessa e unica domanda che tiene in vita questo articolo: “Perché?”. Ogni guerra ha sempre lo stesso deleterio epilogo: la “Morte”. E allora pongo lo stesso quesito anche a lei come fosse un’entità : “Perché prendersela con i civili? Perché toccare i bambini?”. La Morte sta cercando di abbattere anche quella fioca speranza: la “Vita”, la stessa che continua a nascere nei rifugi sotto l’incombente attacco dei bombardamenti. La morte si rigenera sempre come l’Idra a più teste, ma anche la vita ha lo stesso potere, ed io patteggerò sempre per la seconda! Questo non è un articolo, l’arduo compito di stilarne uno lo riservo a quei coraggiosi inviati che rischiano le loro vite per la verità, ai giornalisti che si espongono in prima linea; io sono solo una spettatrice costretta ad assistere alla drammaturgia dell’orrore e, al contempo, alla bellezza della vita, perché in fin dei conti non bisogna mai “disunirsi”.
Questo è solo il mio pensiero che vuole concludersi con la canzone più emblematica relativa alla difficile situazione che stiamo affrontando: “Imagine” di John Lennon, sperando che quella fioca speranza iniziale continui sempre ad essere celebrata, nonostante i bombardamenti!
Imagine there's no heaven It's easy if you try No hell below us Above us, only sky
Imagine all the people Livin' for today Ah
Imagine there's no countries It isn't hard to do Nothing to kill or die for And no religion, too
Imagine all the people Livin' life in peace You
You may say I'm a dreamer But I'm not the only one I hope someday you'll join us And the world will be as one
Imagine no possessions I wonder if you can No need for greed or hunger A brotherhood of man
Imagine all the people Sharing all the world You
You may say I'm a dreamer
But I'm not the only one
I hope someday you'll join us
And the world will live as one ...
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